Petrolio e Salò. L'ultimo viaggio di Pasolini

Quarant'anni fa l'omicidio dell'intellettuale all'Idroscalo di Ostia

di Massimo Lorito 02/11/2015 CULTURA E SOCIETÀ
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All’alba del 2 novembre 1975 un corpo giace insanguinato e deturpato all’Idroscalo di Ostia, sul litorale romano. E’ quello di Pier Paolo Pasolini, allora se non il più importante intellettuale, certamente il più conosciuto, il più discusso, il più amato e, naturalmente, il più odiato. Da quella mattina e per anni la verità ufficiale, costruita grazie ad un intreccio di interessi, convergenze, opportunismi, è quella che vuole Pasolini coinvolto in una sordida e fatale relazione con un ragazzo di vita, Pino Pelosi, finita tragicamente. Il Pelosi, minorenne, si sarebbe addossato ogni responsabilità. Col tempo si è visto che i dubbi che già in quei giorni molti fra gli amici di Pier Paolo nutrivano si sono tramutati in una urgente necessità di indagare la verità dei fatti, se non altro per dovere nei confronti di chi aveva fatto dell’indagine, della curiosità intellettuale, della critica, la propria irriducibile specificità.

Negli anni ulteriori indagini, riaperture d’inchiesta hanno sancito, se pur ancora in modo non definitivo, che lo scrittore, regista e poeta, fu vittima di una sorta di congiura dei poteri. Di quello mafioso, che con la Banda della Magliana lanciava un’ombra sinistra proprio allora su Roma. Della mafia, quella “ufficiale” ( esponenti delle cosche catanesi sarebbero stati gli autori materiali del delitto). Del potere massone, politico ed e economico ai quali Pasolini aveva rivolto soprattutto negli ultimi anni un’accusa sempre più stringente. Basta leggere gli articoli, i cosiddetti “scritti corsari” pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera e l’ultimo romanzo, l’incompleto Petrolio.

A lungo la critica, gli amici, i detrattori hanno dibattuto sul significato delle pagine, dei taccuini, degli appunti correlati al dattiloscritto di Petrolio. A lungo non se n’è compreso l’autentico significato. Se è vero che le oscurità sono molte, è fin troppo chiaro che Pasolini voleva utilizzare le vicende di uomini legati al mondo del petrolio, dell’alta finanza, delle massonerie, come un grande affresco simbolico della società italiana. Una società che proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta stava completando, o meglio quei poteri ne stavano completando a modo loro, una radicale e irreversibile mutazione antropologica. Se negli anni Cinquanta e nei Sessanta del boom, l’intellettuale bolognese aveva già segnalato tali dinamiche, nei mesi finali, quelli in cui era impegnato a scrivere Petrolio e a dare vita al suo ultimo intenso film, Salò, egli, forse solo nel panorama culturale del Paese, aveva pienamente compreso quel quadro di inconfessabili intrecci di poteri, affari e convenienze scegliendo, dal suo canto di intellettuale e poeta, di restituirli sublimati sotto forma di racconti esemplificati, paradigmatici. Con Petrolio e Salò si può dire che Pasolini raffigurò, come in un grande affresco rinascimentale, o come un novello Dante, l’universo simbolico del potere italiano. Un universo oscuro, denso, magmatico, imperscrutabile ai più come la chimica del liquido che muoveva e muove, letteralmente e simbolicamente, ancora oggi il nostro mondo. Quei poteri coalizzati in una specie di alleanza evidentemente non glie lo perdonarono.

 Salò o le 120 Giornate di Sodoma                 

L’ultimo viaggio artistico di Pier Paolo Pasolini è un viaggio all’inferno. Terribile e inaudito presagio della fine imminente che lo attendeva. Un pugno nello stomaco. Come Dante, il poeta agli inferi. Salò o le 120 giornate di Sodoma è la prova estrema di una visione premonitrice che Pasolini amaramente intuiva e, indignato, rigettava. È un opera-scandalo come scandalosa – “lo scandalo dell’amore?”- è stata agli occhi della società italiana la sua vita. Salò è la rappresentazione di una società borghese massificata senza distinzioni e senza speranza; il primo capitolo della ‘Trilogia della morte’, dopo quella della Vita. Ma la Morte, quella che nelle scene iconoclaste del film si prende gioco delle nudità femminili e maschili, lo attirò e ne straziò il corpo tra la polvere e il fango della periferia romana.

Salò non è un film “sul” sadismo, sarebbe riduttivo. Non è una rievocazione sceneggiata delle nefandezze di De Sade e soci. È piuttosto l’atroce parabola di un potere decadente e votato alla morte che trascina con sé un mondo dal quale il Sacro e l’amore sono fuggiti. L’immaginario mitologico che accompagna costantemente il Pasolini cineasta, traspone le sadiche vicende settecentesche nei giorni della Repubblica Sociale, ultimi sussulti del regime fascista agonizzante. Quattro Signori, rappresentanti del potere economico, politico, giudiziario e religioso catturano alcuni ragazzi e al di fuori di ogni legalità, li rinchiudono tra le stanze di un palazzo per abusarne a loro piacimento. Il sopruso non è casuale ma scientifico perché dettato dalle leggi di un Regolamento ineludibile che plasma una nuova, agghiacciante “legalità”. Ecco la verità sul potere. La violenza delle leggi che appena promulgate, messe nere su bianco, devono essere osservate. “La vera anarchia è quella del potere” afferma impunemente uno dei quattro carnefici. Ciò che il potere prescrive è immediatamente legge. La maschera del potere, dietro cui si nasconde l’ottusa coercizione in cui la persona scompare per fare largo ad un cittadino svuotato della sua umanità. Oramai corpo de-sessuato, egli-ella diviene oggetto inerte - né più né meno che merce - delle attenzioni patologiche di sadici governanti. La patologia del potere assoluto. Quello democratico? La violenza diviene fattore costituente, non alternativo, del potere. I tre gironi rappresentati, le Manie, la Merda e il Sangue, che gli sventurati e alla fine corrotti - perché questa violenza corrompe - devono affrontare, non sono altro che la proiezione di quello in cui la società italiana stava per trasformarsi proprio nei cruciali anni settanta. Una democrazia e una società degradata che rende neutri i soggetti e attraverso l’allucinazione del sesso, della merce (merda) e della violenza, pone il suo sigillo di controllo. Salò non fu compreso all’uscita. Dopo la morte del poeta, la censura bollò come pornografica la pellicola. Oggi a tre decenni dal fosco testamento, amaramente conosciamo la pornografia che le nostra società sono in grado di concepire con lo svilimento della Cultura, l’informazione serva, l’ingordigia del consumo, la mercificazione dei sentimenti, la violenza degli aguzzini tra le celle polverose dei nuovi conflitti sociali.

 Un film che non poteva che destare l’apprensione di quanti, a vario titolo e su vari livelli, occupavano le stanze del potere, tanto che nei giorni di fine ottobre del 1975, le pizze originali della pellicola sparirono, vennero rubate. La sera del Primo novembre Pasolini non era solo in strada per cercare compagnia, come banalmente si è a lungo riferito in una verità di comodo. Era stato contattato e aveva preso riferimenti, nomi, indizi affinché potesse recuperare le pellicole. Non sapeva che qualcuno aveva tramato per farlo cadere in un’imboscata, quella notte all’Idroscalo, a Ostia. 

 Con Moravia - Un poeta va preservato, ne nascono tre o quattro al massimo in un secolo - Va tutelato perché illumina di Sacro, sacro egli stesso.

 L’Italia del 1975 non salvò Pasolini. Si è salvata l’Italia?

 

“Fiori: ecco che cosa il cuore vorrebbe offrirvi in cambio dei rifiuti

                         Pier Paolo Pasolini

 


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